I.

Storia della critica montiana

Se nella lunga carriera poetica del Monti non mancarono attacchi anche violenti di avversari e rivali (Gianni, Lattanzi, ecc.) allo scrittore e all’uomo e critiche ad alcune delle sue opere, si può ben dire che, specie nel periodo della sua maturità, si venne formando una fervida atmosfera di generale ammirazione, di caldo, entusiastico consenso che uní i classicisti, i romantici italiani e le stesse maggiori personalità della letteratura europea del primo Ottocento. Il Monti fu riconosciuto senz’altro come grande poeta, ammirato quasi come la stessa personificazione della grande poesia, piú accettata con affascinato stupore che giudicata criticamente[1]. Tanto che le testimonianze numerose di tale ammirazione, accresciuta e spesso sostanzialmente motivata dal fascino della presenza viva del Monti, dalla sua declamazione abilissima e suggestiva, dalla sua stessa figura imponente, gentile e maestosa, sono piú da ascrivere ad una sorta di aneddotica agiografica che ad una vera e propria storia della critica. Il ricordo stendhaliano del Byron che, alla recita da parte del Monti (a un pranzo in casa del Di Breme) del primo canto della Mascheroniana, si commuove e mormora al suo vicino: «He Knows not how he is a poet»[2], la rievocazione che il Constant fa, in alcune sue pagine, dell’ingresso e declamazione del Monti in salotti milanesi («Arrivée de Monti. Superbe figure douce et fière, pourtant le caractère d’un poète..., Superbe déclamation de Monti... Pris congé de Monti. C’est un véritable poète, fougueux, emporté, faible, timide et mobile. Le pendant de Chénier en Italien, quoiqu’il vaille mieux que Chénier»[3]), le parole con cui la Staël (cosí severa nei suoi giudizi su Parini o Alfieri) riconosceva con termini romantici la geniale natura poetica del Monti («l’orage est dans votre sein, les couleurs dans votre imagination; vous regarder, vous écouter, c’est goûter tout l’intérêt de la vie animée») e paragonava persino l’esuberanza immaginosa montiana al Vesuvio («je n’ai eu que quatre plaisirs vifs en Italie: vous entendre, voir S. Pierre, la mer et le Vésuve; encore le Vésuve et vous, cela pourrait bien ne compter que pour un»[4]), si fondono insieme ad altre esaltate espressioni di ammirazione incontrollata di stranieri e italiani in un unico coro di elogi, poco turbato da alcune aspre, ma solitarie dissonanze. E queste potevano attribuirsi al livore di mediocri rivali o ad una antipatia troppo immediatamente etico-politica e comunque incapace di svolgersi in un atteggiamento critico che potesse reagire davvero ad un consenso cosí generale e disposto a ritrovare nella stessa mobilità e mutabilità delle opinioni del Monti un segno ulteriore della sua totale vocazione fantastica, della sua natura irrazionale, della sua pronta, irresistibile disposizione a risentire gli avvenimenti non nel loro valore morale e politico, ma come materia indiscriminata per il suo canto immaginoso.

Come avviene per la severa stroncatura di Nicorio (il Monti) nel Platone in Italia del Cuoco: «Quando saran mute le altre memorie de’ tempi passati, se mai i versi di Nicorio giungeranno alla posterità, gli uomini sapranno dai medesimi, chi era sotto il tale o tal altro pretore il potente della città; il potente, perché di savi non vi ha memoria che ne abbia lodato un solo... Le parole che Nicorio adopera sono armoniose perché non son sue, e coloro che gliele hanno prestate l’avean addotte a cantar cose degne di Febo; poche e meschine sono le idee perché sue»[5].

Piú importanti semmai le pagine della Littérature du midi de l’Europe (1813) del Sismondi in cui all’immagine alta del «piú grande dei poeti viventi» che l’Italia riconosce «d’une voix unanime» nel Monti (immagine che lo scrittore ginevrino riprende dai contemporanei svolgendola in un ritratto elogiativo, ma piú critico-letterario: «Mobile à l’excès, irritable, passionné, le sentiment présent le domine toujours; il sent avec fureur tout ce qu’il sent, tout ce qu’il croit; il voit les objets auxquels il pense; il sont tout entiers devant lui, et un language souple et harmonieux est toujours à ses ordres pour les peindre avec le plus riche coloris. Persuadé que la poésie n’est qu’une seconde espèce de peinture, il fait consister tout l’art du poète à rendre sensibles aux yeux de tous, les tableaux que son imagination crée pour lui... et il marche de tableau en tableau avec une grandeur et une dignité qui n’appartient qu’a lui») si aggiunge però un dubbio assai significativo sulla validità assoluta di una poesia mancante di una profonda coerenza di princípi nell’uomo: «Il est étrange qu’avec quelque chose de si fier dans la manière et dans le style, un homme si passionné ne tienne pas par le coeur à des principes plus constants». Dubbio significativo come la scusa («Supposons, pour son escuse, qu’il compose comme un improvisateur, qu’il s’échauffe sur un thème donné, et qu’il en saisit avec avidité l’idée politique, quelqu’étrangère qu’elle soit à ses sentiments individuels»), come la conclusione in cui, ribadita la valutazione alta dell’uomo di genio, capace di arricchire la letteratura italiana di capolavori degni dei piú grandi poeti, un’ultima precisazione chiarisce il carattere piú guardingo e critico della valutazione sismondiana: «surtout si, ne consultant jamais qu’une vraie inspiration, il ne sacrifie plus aux interêts du moment, une reputation faite pour durer des siècles»[6].

Piú tardi il De Sanctis nel suo giudizio negativo sul Monti dirà: «se si fosse ritratto nella verità della sua natura, potea da lui uscire un poeta».

Nel Sismondi c’è solo un dubbio e una speranza (egli scriveva nel 1813 quando il Monti era ancora nel pieno della sua attività), ma essi sono molto significativi come primo segno di una posizione piú critica, di una insoddisfazione che non nasce da una violenta antipatia morale, come era nel caso del Cuoco, ma da una impressione spontanea e maturata entro un atteggiamento di sostanziale ammirazione per «le plus grand des poètes italiens vivants».

Insoddisfazione che pur si avverte nel complesso atteggiamento del Foscolo, mosso da una forte ammirazione per le qualità artistiche del Monti, ma insieme turbato da quella sua instabilità e debolezza morale che egli tende a spiegare, piú che con una originaria tendenza del suo animo, con una giustificazione ambientale che, dopo la generosa difesa del 1798 contro le accuse degli interessati nemici del Monti, affida dolorosamente in una lettera del 24 novembre 1806 alla Teotochi Albrizzi («Oh s’egli avesse anima piú alta, e forse l’aveva, quanto il Parini e l’Alfieri, ma la corte di Roma l’ha guasto»[7]), per acquistare un tono piú definitivo e severo nelle pagine satiriche dell’Hypercalipsis («Educatus est Montius in aula romana»[8]) e riproporsi in un tono piú pacato fra limitazione e scusa in quel Saggio sullo stato attuale della letteratura italiana nel primo ventennio del secolo decimonono (steso in inglese dallo Hobhouse, ma certamente attribuibile al Foscolo) che presenta il giudizio foscoliano piú completo e meditato, superiore, per distacco critico, ai personali momenti di amicizia che avevano caratterizzato la relazione personale dei due scrittori.

In quelle pagine, che ribadiscono il giudizio e la spiegazione della lontananza del Monti dall’ideale foscoliano del poeta, esemplare per coscienza etica e politica (il Monti era stato educato, alla corte cattolica di Roma, ad una concezione del letterato cortigiano e privo di responsabilità morale, disposto a piegare la sua arte al servizio di tutti i potenti), si articola un esame che assicura al Monti una “prerogativa” originale «consistente nella piacevole combinazione del delicato e del forte» (definizione importante ad intendere l’angolo delle disposizioni poetiche montiane se non a costituire un saldo nucleo poetico personale) e giudicando il valore delle varie opere (nettamente inferiori le tragedie, discontinuo e solo notevole per alcuni «squarci ammirabili e degni di essere portati ad esempio nell’arte della perfetta poesia» il Bardo della selva nera, superiori la Bassvilliana, il Prometeo, la Feroniade, la versione dell’Iliade) giustificava anche le imitazioni e i plagi montiani dai classici per «la maniera nuova e tutta sua, con la quale egli ha riprodotto le bellezze dell’antica e classica letteratura, rendendole in tal modo familiarissime ad ogni lettore » (prima giustificazione di un valore letterario del Monti quale mediatore della grande poesia del passato che verrà ripresa in alcune interpretazioni critiche piú recenti[9]).

Nettamente negativo è invece il giudizio del Leopardi, il piú severo e risoluto del primo Ottocento perché non riguarda tanto le manchevolezze dell’uomo, la mutevolezza dei suoi atteggiamenti politici, ma proprio la natura poetica del Monti[10]. Ed è giudizio tanto piú significativo in quanto esso si matura e si precisa entro un progressivo distacco dalla prima ammirazione (quando il Leopardi aveva sentito l’influsso montiano e aveva guardato al Monti come grande maestro di stile) coerente alla stessa presa di coscienza leopardiana della propria poesia e della stessa nozione di poesia come lirica, come espressione profondamente originale e personale distinta dall’abilità tecnica della maestria letteraria. Nello Zibaldone, dopo un primo paragone delle Cantiche montiane con la Commedia[11], nel quale si riconoscevano al Monti qualità originali di disinvoltura, di eleganza, di grazia delicata non ritrovabili in Dante, si giunge ben presto, già nel 1818, ad un nuovo giudizio che, pur confermando quelle qualità «pregiabilissime e si può dire originali e sue proprie» di «volubilità armonia mollezza cedevolezza eleganza dignità graziosa o dignitosa grazia del verso» e di «scelta felice, evidenza, scolpitezza» nelle immagini, limita la poesia montiana proprio nella assoluta mancanza di «tutto quello che spetta all’anima, al fuoco all’affetto all’impeto vero e profondo, sia sublime, sia massimamente tenero». Monti è «un poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo»[12]. E se qui compare comunque la parola “poeta” (che poté indurre, come vedremo, il Croce a forzare il testo leopardiano verso il riconoscimento di una particolare poesia, ma pur sempre “poesia”), il vero senso di questo giudizio è poi chiarito dalle pagine del 1821: quelle che tracciando una breve e rigorosa storia della poesia italiana negano il nome di poeti al Parini e al Monti «piuttosto letterati di finissimo giudizio, che poeti»[13]; assegnano al Monti il solo pregio di «un poco di immaginazione»[14], e, indagando sulle capacità poetiche degli scrittori italiani contemporanei, chiusi alla vera poesia “affettuosa” e volti a quella “immaginosa” raggiunta solamente «coll’imitare e tener dietro agli antichi come un fanciullo alla mamma», precisano che il Monti «non è poeta, ma uno squisitissimo traduttore, se ruba ai latini o greci; se agl’italiani, come a Dante, un avvedutissimo e finissimo rimodernatore del vecchio stile e della vecchia lingua»[15]. Poi, sempre nello Zibaldone, nel 1823, paragonando Byron e Monti, si conclude che le poesie del primo sono impoetiche per lo sforzo incompiuto della sua fantasia naturale, mentre il secondo addirittura non è poeta, ma solo imitatore e spesso “copista” dei classici, e la sua vena «nel sentimento» è del tutto «secca»[16].

Ed il dissenso leopardiano è ormai cosí assoluto e definitivo che il 1° febbraio 1829, al termine di un bellissimo pensiero sulla «vera poesia contemporanea» (di cui può dirsi «quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per cosí dire, e ci accresce la vitalità. Ma rarissimi sono oggi i pezzi di questa sorta»), il Leopardi sentí il bisogno di aggiungere dopo che già aveva scritto la data: «Nessuno del Monti è tale»[17].

Ma i giudizi leopardiani, che poi vennero tanto calcolati da alcuni critici novecenteschi, non ebbero alcuna influenza sulla critica ottocentesca (lo Zibaldone venne pubblicato solo nel 1898) ed anzi il Carducci poté annoverare il Leopardi – sulla base delle lettere giovanili rivolte dal poeta al Monti – fra i sostenitori e apprezzatori della poesia montiana.

Cosicché, dopo i dubbi del Sismondi e certi spunti limitativi del Foscolo, la fortuna del Monti subí la sua prima flessione solo ad opera di alcuni romantici piú risolutamente fedeli ad una nuova nozione della poesia come opera di una personalità anche moralmente compatta e decisa, frutto di un impegno intero nella vita etico-politica del proprio tempo. Non furono i primi romantici del «Conciliatore», ancora presi dal fascino generale della figura montiana e disposti a riconoscere nel Monti un poeta vicino, per certi aspetti, alle loro esigenze di poesia popolare e moderna, attenta agli avvenimenti storici contemporanei e dotata di una libertà e varietà che poteva equivocamente confondersi con alcuni canoni della loro poetica: cosí Ermes Visconti chiamava la Bassvilliana vero poema romantico per la sostituzione della mitologia classica con quella cristiana e per la sua illustrazione poetica di avvenimenti contemporanei[18]; cosí il Di Breme in una lettera al Monti (dell’aprile 1818[19]), lo invitava a riconoscersi romantico e ad accettare la poetica da lui elaborata come interpretazione teorica delle proprie poesie; cosí il Berchet, riferendosi alla Bassvilliana e alla Mascheroniana, lodava il Monti come poeta civile, interprete di «una giusta indignazione contro la corruttela e la perversità» contemporanea e di «un lodevole amore dell’ordine pubblico»[20]. Per non parlare dello stesso Manzoni che, alla morte del Monti, dettò il noto epigramma:

Salve o divino, a cui largí natura

di Dante il core e del suo Duca il canto;

questo fia il grido dell’età futura,

ma l’età che fu tua tel dice in pianto,

in cui si traduce e si esalta ancora una volta quel generale elogio del Monti da parte dell’età «sua» e che univa classicisti e romantici, i quali oltre tutto tanti elementi fruttuosi e stimolanti avevano pur trovato in certe opere montiane proprio per la loro formazione letteraria nella stessa direzione di una poesia popolare e moderna: e si pensi, come meglio diremo poi nell’esame diretto dell’attività montiana, a certi aspetti di novella e dramma romantico (nelle tragedie o negli stessi poemi), a certe forme, fra metrica, linguaggio e impostazione di canto e di rapide immagini insaporite di particolari realistici (nelle canzonette-odi, negl’inni repubblicani), a certe pagine narrative-epiche della Bassvilliana che poterono suggerire molto al Manzoni e al Berchet.

Dopo la morte del Monti, l’ammirazione dei contemporanei trovava ancora prosecuzione nel commosso elogio funebre del Giordani che puntando sulla naturale bontà del Monti, sulla sua ingenuità, sulla sua timidezza e impressionabilità quasi muliebre, mentre ne scusava cosí i mutamenti politici (incolpandone soprattutto i potenti che avevano costretto a quella mutevolezza il poeta che in quanto tale – poeta «puer» e tutto abbandonato alla sua irresponsabile ispirazione di celebratore e di cultore della bella forma – non poteva avere «costanza e gravità di “filosofo”»), finiva però, quasi inconsapevolmente, per limitarne la potenza originale e creativa, distinguendo dalla «fantasia sovrana» di altri grandi poeti la prepotente «passiva immaginazione» del Monti, cedevole sempre alle impressioni dell’immediato presente[21].

Ma certamente, dopo la morte del poeta e nel declinare della scuola neoclassica di fronte all’affermarsi vitale delle correnti romantiche con le loro esigenze di un «contenuto» civile e morale della poesia, con il loro disprezzo della «bella forma» decorativa e della morta mitologia classica, la poesia montiana viene assoggettata a limitazioni crescenti (anche se non prive di concessioni e di riconoscimenti) senza che, d’altra parte, si possa precisare una vera e feconda polemica a fondo etico-politico quale fu quella interessantissima che chiaramente si può stabilire nel caso del Foscolo fra mazziniani e cattolici[22].

Se si può infatti distinguere negli anni subito successivi alla morte del Monti la posizione severa e storica del Mazzini (ricca pure di elementi di parziale riconoscimento dell’importanza del Monti) da quella del Tommaseo che è di sostanziale difesa ed esaltazione, piú difficile e in parte arbitrario sarebbe precisare due linee nettamente antitetiche di mazziniani laici e progressisti da una parte e di conservatori e cattolici dall’altra, ché oltretutto, come si vedrà nel caso del Carducci, gli stessi contenuti repubblicani e massonici di certa parte della produzione montiana contribuivano a confondere le valutazioni di origine ideologica e politica, cosí come certi aspetti «preromantici» dell’opera montiana attenuavano quella che poteva essere un’assoluta condanna dei romantici, con l’aggiunta poi dell’autorevole ammirazione del Manzoni (secondo il quale il Monti avrebbe avuto nientemeno «il cuor di Dante e del suo duca il canto») che tanto influí sui romantici-manzoniani: sí che fu certo esagerato il giudizio del Carducci che vide il povero Monti assalito e stroncato dal «terrore bianco» dei romantici.

Per quel che riguarda il Mazzini, significativo è il paragone (nel necrologio del Monti apparso nell’«Indicatore genovese» del 1828[23]) fra la morte del Monti, salutata dall’omaggio dei contemporanei, e quella del Foscolo, esule e abbandonato; ma, accanto al rilievo della incostanza e debolezza morale del Monti, permane in questo scritto il senso alto di un poeta collocato ancora fra i grandi poeti, e grande importanza vien data all’autore della Proposta che «dié l’ultimo crollo alla tirannide in fatto di lingua»[24], mentre nel saggio D’una letteratura europea, pure del 1829, si stabilisce addirittura una triade Goethe, Byron, Monti, come triade della nuova poesia ispirata dal senso dell’«armonia universale»[25].

È qui però che tale elogio alto del Monti già conduce il Mazzini ad una prima interessante limitazione, ché al Monti si riconosce piú l’aspirazione che la profonda vocazione alla grande poesia e si osserva una pericolosa distinzione fra la vivacità delle immagini e la debolezza dell’animo e delle idee accresciuta dalla concezione cortigiana dell’arte. Cosí, nel successivo saggio Moto letterario in Italia del 1837[26], il Mazzini tributerà elogi allo stile, alla lingua poetica, ma non alla poesia del Monti e, se pure manterrà il rilievo positivo al carattere liberatore della Proposta (la lotta contro il purismo accademico e antinazionale) e concederà credito alla potenzialità poetica del Monti e al suo iniziale avviamento sulla strada della nuova poesia (tutte indicazioni assai interessanti per chi non accetti la collocazione del Monti entro i puri limiti di una letteratura settecentesca priva di ogni legame con il futuro), egli, discutendo proprio i celebri versi del Manzoni già ricordati sul «cuor di Dante», faceva vigorosamente risaltare quanto il Monti fosse lontano dal grande poeta, eroe e profeta, portatore agli uomini di nuovi ideali, quale esemplarmente era stato appunto Dante, e lontano dunque ormai da quella nuova concezione poetica (che era poi la concezione romantica accentuata in senso di missione religiosa e sociale secondo i tipici ideali del Mazzini) che a Dante si richiamava e considerava l’arte «mezzo, non fine», mentre per il Monti essa era stata sostanzialmente «non mezzo, ma fine». Sicché il Monti, «servo piú di sensazioni che di vera sensibilità, potente d’immaginazione piú che di scienza del core, d’indole fiacca e indecisa, diseredata egualmente di profondi concetti nell’intelletto e di pura e santa fede nell’anima, afferrò un lato solo della vita, quello obbiettivo; abbandonò l’arte ai sensi e alla fantasia, e la ridusse a specchio nel quale vennero l’un dopo l’altro a riflettersi, rivestiti di splendide tinte, ma senza vincolo d’unione o affinità, gli oggetti che le circostanze gli ponevano innanzi». E, salvati nella sua vasta opera «poche ispirazioni di lirica spontaneità nel concetto, alcuni frammenti splendidi per finitezza di forma», rimarrà al Monti fra i posteri solo «la fama di un trovatore brillante».

Conclusione ben diversa da quella del Tommaseo che in un articolo necrologico del 1828 sulla «Antologia» (ripreso poi nel Dizionario estetico[27]) dava singolare prova della sua abilità e mostrava certi aspetti del suo gusto diviso fra esigenza dei contenuti morali e ideali (la cui mancanza aveva tanto criticato nel Foscolo!) e il suo forte «formalismo», il suo amore a volte assai dubbio per lo «stile», per la bella parola. Queste son poi le ragioni piú forti (a parte il fatto che Monti era avversario e rivale del Foscolo, da lui tanto odiato, e che certo nella poesia montiana il suo gusto di esteta e di stilista non incontrava l’ostacolo dell’avversione ideologica cosí attiva nei suoi confronti di romantico cattolico con i «materialisti» e «atei» Foscolo e Leopardi: Monti non presentava alcun «pensiero» originale e coerente) del suo impetuoso amore per il Monti, per lo stilista superbo, per l’inesauribile creatore di immagini e di musicali sequenze.

E sono queste anche le ragioni (contrariamente a quanto pensa il Muscetta) dell’attenzione del Carducci a questo articolo tommaseano.

Articolo sottile e contorto nella giustificazione dell’uomo Monti che egli sente indubbiamente lontano dall’ideale romantico e che accusa nelle sue incoerenze politiche, riprendendo argomenti usati da altri, ma temperandone il rigore, moderandoli con attenuanti (in parte sulla stessa via di certe giustificazioni del Giordani), scusando il Monti con i difetti del suo tempo. E cosí anche per Tommaseo (come per Mazzini) la posizione del Monti nella letteratura appare come contraddittoria o fermata a mezza strada: aveva iniziato una via romantica, aveva impugnato la bandiera della libertà letteraria, ma si era poi arrestato e, pur essendo, secondo il Tommaseo, un romantico per natura, aveva ceduto di fronte al neoclassicismo e si era trovato a capo della resistenza classicista. Né Tommaseo apprezza, da buon romantico, l’uso sovrabbondante della mitologia, in molte opere piú neoclassiche del Monti, sentite pur sempre come «emulazione», non «imitazione» di opere classiche.

Tuttavia al Tommaseo bastava aver salvato, se non la forza dell’uomo, la sua schietta ingenuità, la sua vita tutta rivolta alla poesia e qui, con un trapasso totale da quello che poteva essere un elogio di stilista a quello di un poeta senz’altro, il critico si abbandonava all’esame che piú lo interessava: quello appunto delle opere poetiche montiane nella loro lingua poetica, nel loro stile originale. Ed è naturalmente la parte che può essere tuttora interessante per singole indicazioni e spunti sulla tecnica del verso del Monti, sulla sua ricchissima varietà metrica, in cui egli appare rinnovatore e creatore, nel linguaggio abbondante, splendido e pur chiaro e a suo modo familiare e moderno (quasi superamento dello stile peregrino ed eletto del Parini e di quello stentato e forte dell’Alfieri), anche se, naturalmente, conviene ripetere che nel Tommaseo quell’esame si traduce senz’altro in pacifico giudizio di valore estetico e il rilievo della sapienza tecnica del Monti diviene sempre (e con manifesta indistinzione entro la stessa opera montiana: si pensi all’esaltazione delle tragedie come vera poesia) affermazione di sicura poesia e magari, per accentuare il carattere di originalità del Monti, si finisce per dar minore importanza proprio a quella versione dell’Iliade che pur tanto bene si sarebbe prestata ad un esame delle qualità stilistiche (e in certo modo delle piú vere disposizioni poetiche) dell’autore studiato.

La valutazione elogiativa del Tommaseo, piuttosto cauta per quanto riguarda l’uomo e i suoi atteggiamenti morali e politici, non ha una diretta prosecuzione immediata e non costituisce la base di una sicura linea pro-Monti che, ripeto, è difficile precisare (come è difficile far senz’altro del Monti il poeta della «restaurazione») entro una zona piuttosto intrecciata di giudizi né totalmente favorevoli né totalmente polemici, neppure nel caso del Carcano, manzoniano e risorgimentale moderato, nella cui introduzione ad una edizione di Prose e poesie del Monti[28], si può piú ragionevolmente avvertire un’intenzione se non di polemica aperta, di difesa del Monti dai giudizi piú restrittivi del Mazzini e di altri, di reinserire piú chiaramente la figura del Monti nella storia viva della letteratura nuova (almeno come «anello di congiunzione» fra l’antica e la nuova letteratura), e di ottenere la sua riammissione sicura in quel pantheon risorgimentale dei grandi italiani a cui il Carcano lo raccomandava con una goffa e querula perorazione in chiave sentimentale romantica (perché il Monti era stato tra i figli d’Italia piú infelici e piú infelici perché grandi), e con una volenterosa distinzione fra poeti dell’“intelletto” (mossi da un forte contenuto morale e ideale, come il Foscolo) e poeti della “fantasia”, come il Monti, ugualmente, come i primi, atti a contribuire al progresso dell’«idea eterna rinnovatrice di civiltà», anche se non impegnati nella realtà storica.

Per il resto, come dicevo, condizioni di gusto e atteggiamenti etico-politici si mescolano nelle valutazioni montiane di metà Ottocento senza dar luogo a vere linee ben definibili e ad uno sviluppo di vero interesse per noi. Cosí, mentre un lettore sensibile come il Carrer rivela in una sua paginetta rapida sul Monti un’adesione basata sull’aspetto piú formalistico del suo gusto, fino ad un esplicito riconoscimento della sua ricerca di pura forma nel Monti, scartando ogni considerazione del «contenuto» o «sostanza», come lui dice (e addirittura afferma che la “sostanza” è come il «verme che sta nel mezzo sí della rosa, ma per farne cadere le foglie», con una reazione estrema al gusto «contenutistico» delle prevalenti vere correnti romantiche[29]), negli altri critici, piú legati al romanticismo, ammissioni favorevoli e limitazioni si incontrano, in un clima medio un po’ incerto e perplesso, ma in generale piú incline alla riduzione di un vero valore poetico del Monti, anche se non risolta in termini di risoluto rifiuto e complicata dalle incertezze, ancora esistenti in epoca romantica, fra poesia ed eloquenza[30]. Cosí il Gioberti[31] cede ad un riconoscimento generico del poeta «grande» ed eloquente (e del resto in quel caso interveniva anche la propensione personale del Gioberti per l’eloquenza), ma poi in preciso giudica la poesia montiana come priva di suggestione profonda, «misteriosa maestria dello stile in cui piú siano i sentimenti che le parole», cosí forte in Dante, cui Monti era stato tradizionalmente paragonato come «Dante nobilitato» o «ingentilito». E il Cantú nella sua Storia della letteratura italiana (1865), riprendendo idee di una sua Vita del Monti del 1861, dedica sí al Monti trenta pagine contro le cinque concesse al Foscolo, ma riprende le accuse piú forti contro l’uomo incostante e il poeta cortigiano, giustificato semmai come una donna, sincera nell’amare, ma sempre pronta a cambiare gli oggetti del suo amore e, dopo molte lodi a varie opere del Monti (ma piú la Bassvilliana e la Mascheroniana, poemi «moderni» – e fra l’altro antifrancesi e antirivoluzionari e anche, perciò, piú graditi al Cantú – che non la Feroniade, i cui versi gli sembrano squisitamente classici, ma fra i piú poveri d’originalità), conclude che il Monti «ultimo poeta del passato», si accontenta di riempire le orecchie con torrenti d’armonia, che dipinge, ma non pensa, «mancandogli quella riflessione che è coscienza dell’ispirazione»[32]. Mentre l’Emiliani-Giudici foscoliano e laicissimo, nella sua Storia della letteratura italiana[33] distingue l’uomo pubblico («pernicioso», «strumento di pervertimento della pubblica opinione») da quello privato pieno di tutte le virtú e nella poesia il debole «contenuto» della «forma» elogiatissima specie nella Bassvilliana e nella Mascheroniana, non certo lodate da lui per i loro motivi antirivoluzionari, ma appunto per lo stile «forbito, facilissimo, vigoroso, pieno di cose».

In verità, si tratta di giudizi confusi, poco storicizzabili in linee precise di gusto e di atteggiamenti politici, e ben poco stimolanti quanto ad offerta di spunti direttamente interessanti la nostra lettura del Monti.

Interessanti invece da tale ultimo punto di vista sono le pagine del Settembrini nelle sue Lezioni di storia della letteratura italiana (Napoli 1866-1872), in cui una forte simpatia per il Monti non porta solo ad una ennesima giustificazione della incostanza montiana come ingenuità fanciullesca legata ad una nativa bontà dell’uomo, ma, attraverso l’immagine del poeta fanciullo, ad una valorizzazione della sua poesia di eterna giovinezza, di florida spontaneità, e ad una spiegazione della grandezza della versione dell’Iliade perché il poeta fanciullo trovava in Omero un mondo poetico maturo e pur congeniale alla sua disposizione di appassionamento e di incontro poetico, e questo vi esercitava con sicurezza costante, sulla base di una simpatia naturale fra la giovinezza d’animo del Monti e quella del mondo omerico. Né si trattava di una disposizione valevole per ogni mondo poetico (la versione montiana delle satire di Persio è giudicata brutta) e cosí il Settembrini (che pure insisteva per il primo sulla poesia delle ultime poesie familiari in cui il Monti avrebbe messo i suoi accenti piú sinceri, negati ai nuovi padroni austriaci a cui gettò gli sterili omaggi di componimenti senz’anima) operava – a parte il modo un po’ confuso con cui veniva realizzato – un tentativo interessante di giustificare il capolavoro montiano per una via piú intima e originale[34].

Non si tratta però che di spunti interessanti, non di una interpretazione risoluta e criticamente e storicamente meditata quale fu invece quella contemporanea del De Sanctis.

Già nelle lezioni giovanili del ’42-43 sui generi letterari (raccolte su appunti di scolari dal Croce[35]) il De Sanctis si era impegnato in una interpretazione della personalità montiana nella storia della letteratura italiana cercando di attribuire un preciso posto e significato: quello di espressione di un passaggio fra una scuola «superstiziosamente devota al passato» e la nuova scuola «generosa amica del progresso». Ma il tentativo in effetti si complica con l’attribuzione al Monti di un altro elemento rappresentativo di transizione dalla poesia pubblica (Alfieri) a quella privata (Pindemonte) e da questo intersecarsi poco chiaro di caratterizzazioni storiche scaturisce solo un elemento piú preciso di giudizio sul Monti: «l’ondeggiare perpetuo» e questo carattere di poeta di transizione toglie al Monti «l’esser grande in alcun genere», gli impedí di essere «un poeta armonico, cioè informato da un’unica idea». «Egli non ha fisionomia sua propria, è un Proteo, un’Eco, sebbene meravigliosa, di tutti i generi di poesia. Tutti i sentimenti si trovano riuniti nelle sue poesie, tutte le idee confuse insieme», e le sue poesie «belle quanto alla forma» si vanno dimenticando «perché prive di un concetto nobile ed eterno». Verificata la mancanza di veri sentimenti profondi alla base dei vari tipi di poesia trattati, il giovane critico rimaneva però come sospeso nel formulare una condanna recisa, esitando di fronte alla «meritata fama del Monti». E postosi la domanda: «Come spiegare dunque la meritata fama del Monti, se in lui non è unità e verità di sentimento?», egli cercò di risalire dalle costatazioni negative al recupero di una «unità e verità» della poesia montiana, ritrovate nella sua «potentissima fantasia senza ombra alcuna di sentimento». «L’unità di fantasia, ecco ciò che non gli si può negare, né gli si può negare unità di forma, perché, cangiando l’uomo situazioni e opinioni, può ben rinunziare alle idee, ma non allo stile, che è l’uomo stesso». E si applicava a riconoscere le qualità di quella fantasia e forma: «una straordinaria chiarezza e nitidezza», «la conoscenza perfettissima della lingua e l’armonia meravigliosa del verso, portata talvolta a tal segno che il verso ne diviene un po’ rimbombante: il che anche procede da eccesso di fantasia».

Ma poi nel saggio sul Sermone sulla mitologia[36] (1855), queste ammirate qualità formali, considerate poetiche nelle lezioni giovanili (contraddistinte appunto da un movimento di condanna dal punto di vista del «sentimento» e da uno di rivalutazione dal punto di vista della «fantasia e forma»), divengono, nell’atteggiamento piú severo e unitario del De Sanctis, puri «belletti di cadavere», cosí come nel saggio del ’71 sul Foscolo, in cui a questo si attribuiva la ricostituzione in Italia dell’unità di coscienza e di fantasia, si trovano giudizi sempre piú aspri sul Monti[37].

E nelle poche pagine montiane della Storia della letteratura italiana (1870-1871) la posizione desanctisiana si fa definitivamente recisa nei confronti di uno scrittore che veniva qui misurato sul metro di una distinzione sempre piú esigente fra «artista» e «poeta» e valutato in una diagnosi non solo estetica, ma etico-politica della letteratura italiana come espressione della storia del popolo italiano[38].

Il Monti diveniva cosí l’espressione non ipocrita (ed anzi il De Sanctis giustifica a suo modo, con un tono di indulgenza che ribadisce l’impressione di scarsa serietà e profondità dell’uomo studiato, il Monti cortigiano piú per bisogno e per fiacchezza di animo che per malignità o perversità d’indole: «buon uomo, che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni, e dovendo pur scegliere, si tenea stretto alla maggioranza, e non gli piacea di fare il martire») di una tumultuosa epoca di transizione, e piú degli aspetti negativi che in quella resistevano (e si facevano piú evidenti in confronto con la nuova umanità e con il nuovo tipo del letterato) del popolo italiano, della sua decadenza morale e civile. Monti diviene non solo «il segretario dell’opinione dominante, il poeta del buon successo», ma addirittura la personificazione «di un popolo fiacco e immaginoso, che aveva grandi le idee e piccolo il carattere», il cantore di un «falso eroico» che raffredda invece di riscaldare l’animo del lettore.

Certo (e qui è la maggior concessione fatta dal De Sanctis al Monti) «se si fosse ritratto nella verità della sua natura, potea da lui uscire un poeta», e a lui non mancavano certo le piú alte qualità dell’artista («forza, grazia, affetto, armonia», facilità e brio di produzione e «la piú consumata abilità tecnica, un’assoluta padronanza della lingua e dell’elocuzione poetica»), ma alla fine queste erano «forze vuote, macchine potenti prive di impulso», perché nel Monti «mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere che è l’impulso morale».

Pure i suoi lavori, massime l’Iliade, «saranno sempre utili a studiarvi i misteri dell’arte e le finezze dell’elocuzione». Ma la conclusione dello studio sarà, che «non basta l’artista quando manchi il poeta».

Nettamente positiva e animata da una forte polemica antiromantica è invece la valutazione montiana del Carducci. Questi, che va ricordato anche per l’importante opera di editore delle opere poetiche montiane, riconobbe sempre nel Monti uno dei propri maestri di stile e in assoluto un grande poeta, ed è alla luce degli ideali classicistici “pagani” antiromantici del Carducci (e quanto di montiano è nel Carducci e nella sua eloquenza poetica!) che si deve comprendere un giudizio cosí pieno e appassionato.

Sin dalle Rime di San Miniato, nelle giovanili liriche A Vincenzo Monti e Per il busto di Vincenzo Monti ovvero della poesia classica il Carducci, «scudiero dei classici», aveva esaltato il Monti come ultimo poeta che aveva saputo mirare «in manifesta luce le sante deità», e si era sdegnato contro i «bordellier Catoni» che osavano attaccare la moralità del diletto poeta, scusato per i suoi cambiamenti politici in nome di una scarsa forza intellettuale che non sempre gli aveva permesso di ben pesare «il bene e il male», mentre al bene e al bello tendevano naturalmente il suo animo puro e ingenuo, la sua fervida fantasia.

Giudizi elogiativi che ritornano piú spiegati e difesi nella prefazione del ’58 all’edizione delle Poesie liriche di Vincenzo Monti[39], in cui il Carducci abbozza un’interessante linea di svolgimento della poesia montiana (fase ferrarese, fase romana e contatto con il neoclassicismo, fase del neoclassicismo repubblicano che particolarmente suscitava l’entusiasmo del giovane repubblicano e massonico-progressista, periodo napoleonico, periodo senile, caratterizzato da un ritorno a certa squisitezza della prima e seconda maniera temperata da una maestà greca e latina derivata dalla traduzione dell’Iliade e da un piú alto senso della lingua italiana rafforzato negli studi per la Proposta, con risultato alto nella Feroniade «la piú vivace fronda che mano italiana cogliesse dal sempre fiorente Omero»), e nella prefazione del ’69 all’edizione delle Versioni poetiche[40], in cui il Carducci si scaglia violentemente contro i detrattori ottocenteschi del Monti presentato come vittima del «furore bianco» della reazione romantica, «paolotta», spiritualistica, contraria sia al classicismo montiano sia alla idee repubblicane e laiche che il Carducci (e c’è dunque nella storia della critica ottocentesca favorevole al Monti una componente massonico-laica non considerata da quanti si occuparono di questo problema, come il Muscetta che identifica la fortuna ottocentesca del Monti solo con posizioni conservatrici-restauratrici[41]) finiva per isolare come piú spontanee e partecipate dell’animo del suo poeta. Importante in quest’ultima prefazione la valutazione della versione della Pucelle d’Orléans (opera considerata viva non come semplice traduzione, ma per la presenza di una vena comica e satirica originale ritrovabile anche nelle prose polemiche della Proposta): una di quelle indicazioni notevoli e utili che si possono rilevare entro l’eccesso agiografico e polemico degli scritti montiani del Carducci. Come utile e stimolante (anche se purtroppo interrotto e parziale) appare un breve saggio del 1884 sul Monti principiante[42], che poteva essere l’inizio di quella ricostruzione dello svolgimento artistico montiano, promesso già nel ’62 (prefazione all’edizione dei Canti e poemi[43]), appoggiato al primo schema del ’58 e poi non attuato, e che – tenendo conto delle qualità critiche del Carducci particolarmente aperto alla valutazione della lingua e della tecnica poetica, ai rapporti fra singoli poeti, tradizione e correnti del gusto – sarebbe stato certamente di grande interesse, anche se si può immaginare che il Carducci avrebbe incontrato particolari difficoltà nell’accordare la sua ammirazione per l’artista e per l’uomo (di cui egli nel secondo Ottocento fu assiduo difensore, stimolando e incoraggiando persino le piú insulse e provinciali «difese» di romagnoli e discendenti del Monti, come il Corazzini e Achille Monti) con le inevitabili esitazioni di fronte ai «contenuti» non repubblicani e non laici di certe opere montiane. Come si può vedere in quelle pagine del Rinnovamento letterario d’Italia[44] del ’74, in cui (forse risentendo anche del giudizio desanctisiano e costretto dall’intonazione etico-politica del saggio) il Carducci appare imbarazzato nell’esame della posizione montiana nel periodo romano-papale e parla del Monti come del Metastasio del suo tempo, della Bassvilliana come poema della controrivoluzione italiana, di quell’«ombra di Rinascimento cattolico insieme e pagano che sul finire della lunga pace del secolo mentiva la Roma di Leone X nella Roma di Pio VI»: poema sentito, sincero, storico (dietro ad esso il Carducci sentiva addirittura lo «scricchiar dei coltelli» dei sanfedisti italiani), ma che appunto per la sua sincerità e storicità rendeva difficile la difesa della coerenza etico-politica del Monti grande poeta. Ma sostanzialmente anche questa verifica della mutevolezza del Monti si risolveva dal punto di vista artistico nell’impressione carducciana della grande disponibilità ispirativa del suo poeta, del suo ingegno eclettico (il «piú grande poeta ecletticamente artistico che l’Italia avesse da gran tempo avuto»), affermato decisamente anche in quel saggio e sin negli scritti piú tardi, come nel saggio del 1901 sullo svolgimento dell’ode in Italia («ardente e molteplice ingegno»[45]).

Scarso è il contributo critico del periodo positivistico (che pure offre un ingente e spesso utilissimo materiale di ricerche biografiche, di studi delle «fonti» – o «plagi» – cosí particolarmente stimolati da una poesia tanto ricca di richiami, di rielaborazioni di opere altrui) e poco di nuovo dicono quegli Studi sulle poesie del Monti di Bonaventura Zumbini[46], che oscillano fra la limitazione dell’«artista» (secondo la distinzione desanctisiana) e la valutazione carducciana del «grande poeta ecletticamente artistico» e pure offrono, con scarsa incisività personale, indicazioni non inutili sul gusto umanistico del Monti, sui suoi rapporti con la tradizione.

Scarsi anche i giudizi del primo Novecento, fra i quali, piú che la ripresa scolastica della negazione desanctisiana nel volumetto monografico dello Steiner[47], possono interessarci alcuni spunti del Donadoni[48] sulle ultime poesie del Monti (che già avevano commosso il Settembrini), come quella per l’onomastico della moglie («piú poeta ritornò il Monti nelle liriche composte negli ultimi anni, quando egli poté ascoltare il suo cuore di uomo e di padre»), sulla prosa della Proposta di particolare vivacità ed efficacia, e sulla Iliade, sul cui valore in sé e per sé e come momento essenziale dell’irrobustimento del gusto montiano piú tardo sempre piú chiaramente andrà fermandosi l’attenzione di molti critici contemporanei.

Ma solo con il saggio del Croce, Vincenzo Monti[49], si apre la fase contemporanea della critica montiana e si impianta la base di una discussione che, pur senza l’intenso sviluppo che hanno avuto altri problemi critici proprio per merito della forza e complessità degli autori e della loro viva presenza nel gusto e negli interessi del nostro tempo, ha avuto una sua vitalità e appare tuttora suscettibile di riprese e sistemazioni malgrado l’innegabile decrescere dell’interesse per il Monti dopo un periodo piú vivace, aperto appunto dal saggio crociano e sollecitato dagli anni del primo centenario della morte dello scrittore (1928).

Il Croce scarta anzitutto lo schema desanctisiano secondo cui il Monti era il superstite rappresentante della decadenza italiana e della vecchia poesia[50], e, mentre rileva la presenza nell’Ottocento di una scuola montiana (fra Carducci e Rapisardi), vede nel Monti il rappresentante di un «tipo poetico» di ogni tempo, del poeta umanista, del «poeta della poesia».

Eliminata la discussione sul Monti uomo con l’osservazione che «i diversi avvenimenti e le contrastanti dottrine gli accendevano a volta a volta il fuoco dell’immaginazione ed egli rimaneva sempre fedele allo stesso partito, a quello della bella letteratura», il critico partiva nella sua interpretazione dall’accertamento di un innegabile «piacere», da una impressione di «voluttà» provata nel leggere i versi montiani. «E per queste impressioni che ogni lettore del Monti prova al pari di me, non sembra adeguato il giudizio di lui come non-poeta, ma retore letterato e tecnico, uomo di immaginazione, privo di sentimento e di fantasia... Gli mancava veramente ogni sorta di sentimento e di fantasia? Era totalmente non-poeta? ... Non era poeta, in quanto per poeta s’intende nel linguaggio comune, appunto colui nel quale la fantasia brucia al suo fuoco e idealizza le passioni del mondo reale. Ma nel mondo c’è poi un cantuccio che si chiama “letteratura” e che è a suo modo reale, e desta sentimenti d’affetto anch’essi reali, e può dar luogo perciò a un particolare idoleggiamento, a una particolare fantasia e poesia, la poesia del letterato. E qui il Monti era sincero e commosso e di qui proviene l’attrattiva che pur esercitano i suoi versi»[51].

In tal modo il Croce giustificava la propria impressione di lettore del Monti con una formula molto ingegnosa e che mirava a graduare la speciale qualità di una personalità a cui si riconosceva senz’altro il carattere di poeta (ed anzi il Croce finiva, in questa sua opera di recupero del Monti al regno della poesia, per forzare il celebre giudizio leopardiano sul «poeta dell’orecchio e dell’immaginazione» notando, in maniera piuttosto sofisticata, che comunque il Leopardi asserí che il Monti «poeta pur fu»), ma che appariva poi limitato rispetto ai grandi poeti della stessa qualifica che pur lo riscattava dai giudizi di non-poesia. Perché «questa sorta di sentimento che è il sentimento letterario o artistico, è tra le piú modeste e povere, perché si riduce all’affetto per le forme estrinseche, per immagini, movenze, cadenze, vocaboli e giri di parole vuotate della vita che già sintetizzarono e chiusero, simili ad ampolle e fiale che contennero profumi e ne serbano qualche odorosa traccia...»[52].

Quella formula (poeta della bella letteratura, poeta della poesia) celava indubbiamente una incertezza, conciliava una netta distinzione fra il Monti e i «grandi e veri poeti» e un insopprimibile moto di simpatia e di ammirazione, e certo si prestava e si presta a discussioni anche dal punto di vista metodologico crociano. Ma comunque essa indica per noi la difficoltà di separare nettamente il regno della «poesia» da quello della «non poesia» e della «letteratura» (e Monti è il tipico esempio di una personalità che, pur non raggiungendo la grande poesia, a questa tende e si presenta ricca, se non di un intero e profondo nucleo poetico, di «disposizioni» poetiche che spiegano poi gli stessi risultati alti del Monti traduttore, come diremo in seguito) e storicamente costituisce la base della discussione della critica contemporanea sul Monti. Né, d’altra parte, si può dire che quella valutazione positiva del Monti (indubbiamente tanto piú singolare in mezzo ai saggi di Poesia e non poesia, in cui il Croce stronca risolutamente come non poeti tante vecchie glorie ottocentesche e si dimostra cosí severo nella rigida distinzione di poesia e non poesia sin con un Hölderlin e, in gran parte, con un Leopardi) fosse frutto di un semplice momento impulsivo, ché il Croce anche piú tardi, e proprio nel libro La poesia (1936) in cui precisava la nuova distinzione fra «poesia» e «letteratura», confermava il suo giudizio sulla poesia del Monti, come poesia sulla poesia e chiamava la versione dell’Iliade «un capolavoro»[53].

Se la formula crociana suscitò obbiezioni da parte di uno degli stessi scolari del Croce, il Citanna, che nel suo saggio montiano del ’26 sulla «Critica»[54] trovava assai grave che fra ciò intorno a cui si discute sia il titolo di poeta da attribuirsi o meno al Monti e riprendeva persino la validità dell’«artista» perché secondo lui privo di ogni vero sentimento poetico, sicché il Monti gli appariva null’altro che «un decoratore poetico» (anche se poi salvava l’Iliade nel cui confronto con il testo omerico il saggio del Citanna ha le sue pagine piú fini e felici), negli anni del centenario della morte del Monti l’influenza del giudizio crociano si incontrò con una certa generale simpatia di letterati contemporanei favorita dal particolare «neoclassicismo» di origine rondistica e da un certo formalismo ostile alla poesia «impegnata» (è l’epoca di minore accettazione dei Sepolcri foscoliani) e propenso a riconoscere persino nella mutevolezza etico-politica del Monti il segno di una vocazione di poeta puro, di poeta tutto assorto nelle sue belle immagini, nella musica gratuita dei suoi versi[55]. Mentre la pubblicazione dell’epistolario montiano da parte del Bertoldi contribuiva ad arricchire sia il fascino della personalità montiana con la sua cordiale vitalità, con la sua instancabile serietà di artista innamorato della sua arte, sia la valutazione positiva del prosatore non puramente accademico, ricco di brio, di moti impulsivi, di malinconiche e schiette cadenze specie nelle lettere della senilità.

Di questa «aura» montiana sono chiari documenti certi articoli del centenario (caratteristico il numero dedicato al Monti dalla «Fiera letteraria» con un brillante ritratto del Cajumi che esalta l’«artista puro», l’«Ingres della poesia», e con un polemico saggio del Flora, Io difendo Vincenzo Monti, e con altri scritti concorrenti nell’immagine di un vero e grande poeta) e, ancor piú tardi, quel Fiore della lirica italiana di Falqui e Capasso (Lanciano 1933, antologia della poesia italiana alla luce del canone della «poesia pura» e del frammentismo) che includeva decisamente un brano montiano dai Pensieri d’amore rimpiangendo di non poter, per ragioni di spazio, riportare brani della versione dell’Iliade. Ma da un punto di vista critico, piú di questi documenti di una fortuna di gusto, interessano naturalmente alcuni saggi criticamente impegnativi usciti in quegli anni. E non tanto le monografie, fra divulgative e scolastiche, del Bevilacqua[56], del Reichenbach[57], del Pompeati[58] (certo la migliore e non priva di qualche spunto critico, come l’accentuazione, seppure poco sviluppata, del particolare neoclassicismo familiare e quasi narrativo dell’ultimo Monti e particolarmente della Feroniade), quanto i due saggi di Francesco Flora e di Luigi Russo (notevole anche l’introduzione del Valgimigli alla sua edizione dell’Iliade, Firenze 1927, in cui il Monti è definito grande poeta letterato e si precisano utilmente in puntuali riscontri con il testo omerico alcune caratteristiche dell’arte montiana).

Nel suo saggio del 1927, La poesia di Vincenzo Monti[59], il Flora tende a superare la formula crociana attribuendo al Monti non solo l’amore per la poesia, il sentimento poetico della bella letteratura, ma un preciso nucleo originale e personale con cui quel poeta rappresenterebbe addirittura la premessa della nuova poesia italiana dell’Ottocento. Riconfermato, in accordo al Croce e col Russo, ma con una maggiore esaltazione di tale posizione di «poeta puro», il carattere apollineo del Monti superiore agli avvenimenti cantati, fedele a se stesso e alla sua fede poetica («Volubile? Verrebbe voglia di dire che non c’è carattere di poeta piú fermo e inesorabile del suo sempre relegato nel mondo dei miti... Pareva che Monti adulasse principi e re, e tutti costoro gli servivano per adulare l’unica divinità in cui credesse, l’immagine poetica»), e ribadito che «non le passioni hanno il potere di toccare il Monti, ma le loro forme», l’appassionato interprete aggiungeva (e questo è il motivo piú suo e piú interessante pur nella sua discutibilissima accentuazione come unico e potente nucleo lirico del «grande poeta» Monti) che sotto quell’amore per i miti, per le forme, per la lingua poetica («la mitologia è sostanza e lingua della poesia... la lingua delle Muse non muta e la poesia è per il Monti l’apprendimento di quella lingua») c’è nel Monti un sentimento universale e la mitologia, «essenza della sua capacità emotiva», esprime un «senso cosmico», un amore della sensibile meraviglia cosmica, ciò che la natura ispirava di attonito e d’estatico. E le belle forme della letteratura erano amate anche «nel senso del meraviglioso che c’è nelle immagini e nei suoni»[60].

Cosí il Monti del Flora, chiuso alle passioni degli uomini (donde il fallimento delle tragedie, opere di puro mestiere), attento alle «cose fuori dell’uomo», all’incanto dell’universo «primigenio», trova la sua misura migliore nei poemetti mitologici, nell’impeto immaginoso delle visioni celesti, e soprattutto in quella giovanile Bellezza dell’universo che il Flora considera un capolavoro, «un canto rovente d’ispirazione», e nella cui rapita interpretazione il critico espande la sua ammirazione entusiastica e quasi incontrollata, traducendo in una forzatura evidente di caratteri della poesia montiana certi aspetti della propria sensibilità fra dannunziana e barocca, la sua nozione della poesia come mito della parola, come musica raffinata e sontuosa: «canto che trabocca di una sonorità solare...», poesia in cui «ogni figura è una sequela di aspetti cosmici, che all’autore erano presenti in rapidissime sintesi e perciò riempiono la parola di un multiforme significato», capolavoro che «resiste alla piú severa critica per lo splendore dell’eloquio, per l’altezza delle immagini, per quella potenza incredibile di dar forma e luce ad un pensiero quasi astratto quale è la creazione del mondo. Gli è che questo era il vero sentimento montiano, il senso della cosmica visione, il senso stesso della creazione»[61]. E di fronte a quel capolavoro finivano in fondo per apparire meno fortemente «montiane» la stessa versione dell’Iliade, o la Feroniade, piú pura, ma meno intensa e impetuosa.

Indubbiamente un’interpretazione suggestiva, quella del Flora, cosí decisa e impegnata, e certo tutt’altro che priva di indicazioni importanti e stimolanti, ma da utilizzare e riprendere comunque con un animo critico piú guardingo, meno appassionato, piú attento alla realtà di una poesia tanto meno realizzata e tanto meno profondamente originale di quanto appaia in quella immagine entusiastica, frutto di una consonanza del critico con un atteggiamento del gusto contemporaneo nelle sue forme meno sottili ed esigenti.

Piú cauto e vicino alla formula crociana è invece il saggio del Russo, Vincenzo Monti e la letteratura contemporanea (1928)[62], che parte, secondo il tipico storicismo del critico, da una caratterizzazione del Monti in rapporto alla tendenza dominante nella letteratura italiana tra la fine del Settecento e il primo Ottocento: mentre questa tendenza è un crescente senso della realtà, il Monti tende ad evadere nel regno delle visioni e a mitologizzare la vita presente, «a dar valore a questa vita solo se essa può avere qualche riscontro e affinità e un’eco nelle espressioni liriche che altri poeti, o antichi o moderni, hanno elaborato»[63]. Cosí l’epopea del Monti era l’epopea non di un mondo storico-politico, ma di un mondo di miti letterari che stava per concludersi, e la stessa mitologia era un freddo ricordo, quanto l’umanità stessa del poeta «il suo modo di vedere l’universo, eterno e contingente»[64].

E la sua poesia era unitaria nella sua natura di «poesia della poesia», di poeta «di affetti estetici e non di affetti umani», «poeta canoro della bellezza, musico dei miti dell’immaginazione, e come tale esso ha una sua rapita singolare fisionomia nella storia della nostra letteratura»[65].

Poeta fanciullo e quindi «irresponsabile», poeta delle «care itale note» e dei bei miti, fuori dalla realtà contemporanea e tuttavia non privo (ed è il punto con cui il Russo cerca di costituire un rapporto non solo antitetico del Monti con il tempo nuovo) di un interesse storico «per quel nuovo desiderio, sia pure tutto letterario ed estetico esso stesso, di partecipare alla vita del mondo» (come negli scritti linguistici della Proposta si poteva trovare un’«Italia del sogno», ma già unita, nazionale, non piú municipale[66]).

Dopo questo periodo di maggiore attenzione e simpatia per il Monti, la critica sembra tornare ad atteggiamenti piú distintivi e guardinghi, con un progressivo distacco dall’immagine piena che soprattutto il Flora aveva presentato. Si può anzi dire che lo stesso gusto poetico contemporaneo nei suoi rappresentanti piú esigenti (piú leopardiani e foscoliani che montiani) era portato a reagire ad una poesia che, nell’apparente vicinanza ai grandi modelli della tradizione lirica ottocentesca (Foscolo e Leopardi) e nell’ambigua rispondenza a immagini del «poeta puro» contemporaneo, faceva avvertire però ad un orecchio fine un timbro tanto meno puro ed essenziale, piú sonorità che vera musica, piú immaginosità che fantasia e un cosí forte margine di eloquenza e di letterarietà, mentre a chi teneva fede al desanctisiano rapporto fra poesia e coscienza le giustificazioni del Croce e dei crociani non apparivano del tutto persuasive.

Proprio in quest’ultimo caso Attilio Momigliano, cosí lontano dalle mode e dagli entusiasmi del proprio tempo, tornava decisamente, nelle pagine della sua Storia della letteratura italiana, ad una posizione di limitazione centrale: «Il Monti è uno degli esempi piú chiari del fatto che la poesia ha le sue radici vitali nella coscienza, e che non ci può essere grande arte dove non c’è uno spirito originale. Non c’è periodo della sua lunga attività in cui si possa riconoscere alla sua poesia un motivo vitale, né si può dire che essa abbia un vero svolgimento, come succede nei poeti che cercano faticosamente di riconoscere le proprie attitudini»[67].

Ma il Momigliano (che aveva già espresso limitazioni sul Monti nel commento a poesie montiane nella sua Antologia della letteratura italiana, dove però non mancano rilievi e riconoscimenti di vera e persin grande poesia per parti dell’Ode al signore di Montgolfier e della Feroniade) non si ferma a questo giudizio di limitazione centrale e conduce una ricerca spregiudicata delle tendenze dominanti dell’arte montiana. E mentre accerta la presenza di una «vena di non mentita malinconia»[68] dai Pensieri d’amore alla poesia per l’onomastico della moglie che sarebbe il capolavoro di questa tendenza, e di una tendenza al “decoro”, indica il carattere piú montiano in una «tendenza al barocco temperato da un’educazione neoclassica»[69]. Sicché se pure il Monti «sapeva disegnare qualche volta con purezza», «il temperamento nativo lo portava verso gli spettacoli grandiosi, tumultuosi, teatrali. E qualche volta anche da questi seppe ricavare una nota di vera poesia»[70], anche se all’ambizione di grandi costruzioni non corrisponde una adeguata capacità, ed anzi proprio l’organicità delle opere è piú rara nel Monti, se si escludono il Caio Gracco (a cui il Momigliano finí per concedere eccessivo credito), e le due traduzioni (Pucelle e Iliade), i suoi veri capolavori.

L’idea centrale della tendenza barocca temperata dal neoclassicismo (certo la piú interessante dell’interpretazione momiglianesca e la piú suscettibile di utile discussione in vista di una collocazione del Monti nella storia del gusto dell’epoca neoclassica, anche se molto approssimativa appare la qualifica «barocca») fu ripresa poi dal Momigliano in un importante saggio del 1941, Gusto neoclassico e poesia neoclassica[71], che, con maggior precisione e con un tentativo di svolgimento di fasi del gusto montiano, caratterizzava il Monti come il poeta che aveva reso scenografico e «barocco» il classicismo rococò del Savioli e aveva dato vita (in accordo con tendenze del suo tempo documentabili sin nei balli coreografici del Viganò nella Milano napoleonica) ad un «neoclassicismo ibrido, intessuto di reminiscenze classiche e di fastose e talvolta truculente prosopopee e coreografie»[72], con una tendenza alla «pompa» che a volte si trova anche nella versione dell’Iliade. Ma proprio nel periodo in cui il Monti attendeva a quella versione, il Momigliano rilevava come il poeta venisse a «mescolare al suo solito stile un altro piú robustamente dignitoso e piú fine»[73], una tendenza piú veramente neoclassica sui cui risultati poetici il Momigliano non si pronuncia in quel saggio, ma che (ripensando ai giudizi della Storia della letteratura e al commento dell’Antologia) dovrebbero ritrovarsi sia nella poesia per la moglie, sia e soprattutto nella Feroniade.

Accanto alla posizione del Momigliano, severa, ma equilibrata e con concessioni di vera poesia, e molto attenta al significato del Monti nella storia del gusto poetico, appaiono piú direttamente polemiche con le posizioni della corrente crociana le valutazioni di Cesare Angelini e Giuseppe De Robertis, in cui si precisa quel moto di nuovo distacco (nell’Angelini piú perplesso in fondo e, per certi lati del suo gusto umanistico ed estetizzante fra Serra e Pascoli, controbilanciato da forti ammissioni della bellezza finemente degustata di passi montiani) di cui parlavo sopra e che certo corrisponde ad una naturale separazione del Monti dai suoi vicini grandi, Foscolo[74] e Leopardi, a cui tanto guardavano nello stesso periodo i letterati italiani.

L’Angelini, nell’introduzione a un’antologia assai giudiziosa dell’opera montiana[75], faceva proprio un consuntivo malinconico della fortuna attuale del Monti, dopo la breve euforia del centenario: «La verità è che il Monti non parla piú al nostro cuore. Monti è una poetica piú che un poeta. È una vena piú che una voce... Monti è senza intimità e senza rispetto per essa... Il fatto stesso di essere sempre un poeta d’occasione non lo impegna sul serio... Non è un mondo poetico, è una forma letteraria...»[76]. Piú istinto che coscienza letteraria, privo di tormento e di profondo svolgimento, lontano dal nostro cuore e dalle nostre letture (e addirittura «tempio disabitato dalla divinità»), il Monti non manca però di esercitare anche un fascino sul lettore paziente e «quando si tratta di tirare le somme, sentiamo di dovergli fare un posto onorato», non ci sentiamo di farlo cadere «nel limbo dei minori e dei puri tecnici»[77]. Lo difende il suo amore per la lingua, «che fu la sua grande avventura; la sua strenua passione di letteratura»[78] e piú (oltre a tanti passi della Feroniade e del Prometeo che l’Angelini gusta e ammira persino con forme di rapimento edonistico eccessivo) lo difende la versione dell’Iliade, («genialissima, spiritualissima, poeticissima»[79] e pur fedelissima; «ricreazione d’arte e quasi cosa nuovamente trovata»), in cui il Monti realizzerebbe il suo vero destino di poeta-traduttore.

Poeta-traduttore era per l’Angelini sí una limitazione rispetto ai grandi poeti originali, ma implicava ancora (in un’accezione molto piú benevola di quella già usata dal Leopardi: traduttore come imitatore senz’anima sua) il riconoscimento di una radice di poesia. Mentre invece proprio in quella vocazione dominante di traduttore il De Robertis[80] concludeva in maniera impaziente con una condanna del Monti traduttore, non poeta, contrapposto a Foscolo poeta anche quand’era traduttore: «Foscolo, anche quando traduceva, inventava... Monti anche quando inventava, traduceva. Dunque traduttore sempre»[81]. E se ammetteva che la versione dell’Iliade rimane il capolavoro del Monti e rappresenta insieme alla Bellezza dell’Universo e alla Feroniade il risultato piú saldo e significativo dello scrittore («son certo le tre cose piú salde e significative opere del Monti e puoi a traverso queste seguir il corso della sua ispirazione. Prima tutti impeti e una continua scoperta – scoperta di letture, s’intende –, di qui il suo ritmo rotto, la sua vibrazione intensa. Poi, eguale, piena, ricca, complessa, col forte appoggio su un testo e su un mondo poetico. Finalmente con una arte piú fina, piú consapevole, un poco smorzata, ma, direi, sempre sulla scia del gran libro, sempre respirando aria omerica»[82]), risolveva anche quel «corso» in un progresso di mestiere, non in uno sviluppo profondo di poesia, ché di questa manca l’accento piú intimo e la stessa malinconia, la commozione dei versi senili appaiono effetto di «un casuale ripiegamento» o di una «casuale e fortuita rinuncia», «non hanno forza, non hanno risonanza, non restano»[83].

E i letterati e i critici contemporanei sembrano sostanzialmente concordare con il giudizio del Leopardi («poeta dell’orecchio e dell’immaginazione») liberato dall’interpretazione benevola che ne aveva dato il Croce, come è avvenuto in anni recenti (di fronte ad interpretazioni monografiche come quelle di Lorenzo Fontana[84], che esaminano tutta l’opera montiana con un criterio di distinzione, e alla ricerca della parte positiva e veramente poetica di quell’opera, o come quella di Febo Allevi[85], che tenta una salvazione antologica di brani poetici) sia nelle pagine del Compendio di storia della letteratura italiana del Sapegno[86], che, sintetizzando in un’armonica esposizione idee della critica novecentesca, punta essenzialmente sul traduttore ed artista, privo di una vera originalità, sia nella introduzione di Carlo Muscetta ad una antologia montiana[87] (antologia poco felice perché di fronte all’intera versione dell’Iliade offre una scarsa scelta di poesie e prose di Monti) in cui, accanto ad un forte rilievo di motivi piú spregiudicati e brillanti ritrovati in componimenti galanti, nelle lettere e nella versione della Pucelle, si profila una sostanziale stroncatura del Monti uomo e poeta e una risoluta critica della formula crociana del poeta della letteratura. Letterato, ma non poeta, ingegno di fine letterato umanistico e di classicista «neo-barocco» (non senza rispondenza e recepimento delle immagini spettacolari della Roma barocca[88]) ampolloso e legato ad una nozione e pratica di vecchia letteratura cortigiana, il Monti appare privo di vera poesia anche nella versione dell’Iliade (e su questo punto il Muscetta polemizzò, in un articolo su «Società»[89], con il Valgimigli[90], il cui commento era stato incluso nella citata antologia, osservando come anche in quella versione si tratti soprattutto di abilità letteraria e di una sapientissima utilizzazione persino di precedenti traduzioni settecentesche), mentre per Mario Fubini, in un articolo commemorativo del secondo centenario della nascita del poeta[91], la personalità del Monti si risolve nel suo grande significato di immagine apollinea della poesia per i suoi contemporanei, di mediatore della tradizione poetica ai letterati di fine Settecento e di primo Ottocento, di grande letterato, ma non poeta, di «grande rielaboratore del linguaggio»[92], di amoroso e vigoroso cultore e difensore della lingua letteraria italiana.

Né può sfuggire il chiaro confronto fra il centenario del 1828 pieno di valutazioni positive, di appassionati omaggi, di contributi biografici, e il centenario del 1954, in cui l’unica vera diretta commemorazione, quella del Fubini, concludeva per una riduzione cosí drastica del valore originale e poetico della personalità montiana, di cui pur cosí giustamente si metteva in rilievo un aspetto del suo significato storico nella vita letteraria e poetica del suo tempo.

Ma può soddisfare interamente tale soluzione del problema montiano anche dal punto di vista di ciò che il Monti significò per i suoi contemporanei? Può soddisfare interamente una totale relegazione del Monti nel campo della «letteratura» senz’altro? In realtà la distinzione fra letteratura e poesia non è sempre facile e soddisfacente e proprio per il Monti par necessaria una valutazione che, abbandonando certo l’assurda qualifica per lui di grande poesia, recuperi pure, nel lungo corso della sua attività, la realtà delle sue disposizioni poetiche e delle loro realizzazioni entro una tensione espressiva che sembra a volte sfiorare, senza raggiungerla, persino la grande poesia, e che, comunque, tanto significò nella storia complessa della poetica neoclassica, tanti stimoli offrí ai poeti del primo Ottocento. E che presenta un suo svolgimento tanto piú interessante quanto piú lo si collochi entro quelle condizioni del gusto e della poetica contemporanea a cui soprattutto il Momigliano guardò con fecondo interesse.

Dopo la pur cosí scarsa ripresa del problema critico montiano in occasione del bicentenario della nascita, in cui si inserisce il presente volume del ’55-56, nella sua forma di dispense, con la sua proposta di interpretazione storico-critica monografica, l’attenzione della critica all’opera e al valore del Monti si frammenta (fino al saggio monografico del Barbarisi del ’69) in studi piú particolari, vòlti a proseguire l’indagine, sempre piú da vicino, di modi del suo far poesia soprattutto come traduttore, di momenti della sua attività, mentre modesto, anche sul piano biografico su cui si colloca, risulta il volume complessivo della Chiomenti Vassalli[93].

Al traduttore dell’Iliade, di cui già si erano occupati il Valgimigli e il Muscetta, in direzione opposta (il Valgimigli accreditava, con fine lettura, l’assoluta originalità e poesia della versione omerica, il Muscetta viceversa la vedeva – in contrapposizione con la versione «vera» della Pucelle, da lui giustamente assai apprezzata – come prosecuzione della tendenza montiana immaginosa, retorica e amplificante, agevolata da alcune delle traduzioni precedenti, fra cui soprattutto quella del Cunich), si son particolarmente rivolti il Vischi[94], il quale soprattutto mira a identificare i vari numerosi testi di cui si era servito il Monti nel preparare e costruire la sua versione, il Chiodaroli[95] che da quelle identificazioni era risalito a verificare le specifiche modalità letterarie e stilistiche della versione montiana, in cui egli ravvisava il capolavoro del poeta che è tale «in quanto è traduttore, perché il testo offre a lui l’unica cosa ch’egli non possiede, la passione di trasfigurare in bellezza»[96], il De Luca sia nella breve e fine presentazione dell’edizione del Turri[97], sia nella pubblicazione dell’autografo dell’Iliade montiana insieme alle osservazioni del Mustoxidi e di E.Q. Visconti preziose per il lavoro del Monti e per il generale gusto neoclassico[98], e piú ampiamente la Balbi, con un saggio[99] in cui esamina (sulla base degli studi già ricordati circa le traduzioni omeriche adoperate dal Monti) la teorica montiana del tradurre, piú attenta alla struttura di idee e concetti che alle forme linguistiche e originali del testo e scarsamente dotata di filologia (con la conclusione che tale mancanza e la scarsa conoscenza del greco non ostacolarono e addirittura favorirono la poesia del traduttore), mentre poi in apposito volume[100] si volge a lumeggiare la sensibilità del Monti di fronte alla poesia omerica e, a tale scopo, indaga minutamente le particolarità lessicali e stilistiche della versione montiana, precisa nuovamente l’uso dei “mediatori” in italiano e latino (soprattutto la versione letterale del Cesarotti), l’aiuto dei dotti consiglieri, analizza puntualmente le varianti esistenti tra le due principali edizioni (del ’10 e del ’12) e conclude con un giudizio sulla celebre versione caratterizzata dal «fasto» e dalla «sonorità» propri del poeta e dunque ben lontani da quell’«omerica semplicità», la cui conquista i contemporanei attribuivano al Monti traduttore di Omero.

Mentre (per quel che riguarda scandagli su momenti particolari dell’attività montiana negli anni successivi al bicentenario) un volumetto del Colicchia[101] si occupa del primo periodo montiano soprattutto in rapporto all’importantissimo Saggio di poesie del 1779 rivelante (come avviene anche in lettere e altri scritti di quel periodo) una poetica poco organicamente esplicitata, ma sostanzialmente raccordata alla preferenza del Monti per la poesia di «grande entusiasmo» a sua volta radicata in «una posizione emozionalistica che lo portava a staccarsi dalla poesia intellettualistica propria del Settecento e gli permetteva di interpretare presso di noi le esigenze della nuova sentimentalità europea»[102]. Indicazioni interessanti, ma da approfondire in un miglior uso delle nuove indagini storiche dell’ambiente pontificio[103] e della storia settecentesca, specie letteraria, nel suo periodo terminale e da collegare a tutto il dinamico svolgimento del Monti entro la storia del suo tempo.

A questa esigenza storica e dinamica risponde, nel ’69, l’ottimo profilo monografico del Barbarisi, Vincenzo Monti e la cultura neoclassica[104], che apre una nuova fase della critica montiana, anche in rapporto con le istanze e il disegno del presente volume, cui il Barbarisi esplicitamente si riferisce.

Mentre negli stessi anni si pronuncia – in forme variamente nuove o collegate a proposte già avanzate dalla critica (specie da Russo e Flora all’altezza del centenario del ’28) – la tendenza a tratteggiare un ritratto del Monti e della sua poesia partendo da una configurazione della sua personalità meno in chiave di «opportunista» e «voltagabbana» in campo politico, come avviene, in forme piú nuove e interessanti, nel saggio del ’69, del Bezzola[105], che riporta l’incoerenza ideologica e politica del Monti a sue disposizioni temperamentali («la rapidissima emotività mista ad un’estrema fragilità psicologica»[106]) e ne spiega la mancanza di esiti altamente poetici non per il suo presunto calcolato cinismo, ma per l’occasionalità e la conseguente mancanza di tensione spirituale che viceversa permise il dispiegarsi del suo «genio formale», la sua «straordinaria versatilità», mediante le quali egli poté assecondare e promuovere le spinte del gusto e della problematica, prevalentemente in accezione stilistica, della sua epoca, o – in forma di piú arretrata ripresa di vecchie istanze apologetiche – nel volume della Carosella Corvisiero[107], del ’70, che rifiutando il criterio dell’“impegno” postula la necessità di abbandonare ogni confusione fra biografia e arte e tenta, con debole impostazione e scarsi esiti, di ripercorrere l’attività del Monti e di comprendere l’«intrinseca natura» della sua poesia alla luce del rapporto tra fantasia e mitologia nell’«atto concreto» del «farsi» della poesia[108].

Il saggio del Barbarisi non tenta riabilitazioni alte della poesia del Monti e, «rifiutando l’idealistico criterio di sceverare dalle scorie la poesia pura», persegue, con misura ed equilibrio, la via dell’impostazione e della delineazione dell’intellettuale-scrittore in tutta la sua opera (non solo quella in versi) puntando sulle sue grandi doti di animatore e organizzatore della cultura e interpretando cosí la sua poesia in funzione della importanza culturale che essa ebbe nella sua epoca e nei suoi ben scanditi momenti, in risposta alle richieste che la società rivolgeva al Monti e in collaborazione con i problemi in discussione in Italia e nel passaggio attraverso l’epoca riformatrice, rivoluzionaria, napoleonica e della Restaurazione con interessanti rilievi politici-letterari pur suscettibili di discussione piú ravvicinata (l’importanza della versione di Persio in rapporto con la «bile» polemica del periodo piú acceso contro il protettorato francese) e con costante raccordo fra la sua opera poetica e quella del polemista, del linguista, dello scrittore di lettere.

Certo potrebbe apparire spesso troppo lineare e giustificativo il rapporto con i destinatari, con il pubblico preciso cui Monti si rivolge, risponde e corrisponde e potrebbe al limite cogliersi la radice di un rischio di diversa ipervalutazione della funzione e della personalità montiana, anche in contrasto con quella, viceversa tanto piú profonda e autentica (e proprio nella sua irrequietezza di coscienza critica del proprio tempo) del Foscolo. Ma, mentre tale rischio non si esplicita nella misurata consistenza del saggio, esso stesso promuoverebbe una nuova discussione tutt’altro che inutile sulla storica e personale envergure del Monti, sottratta, ad ogni modo, alle istanze idealistiche della «poesia pura» e a quelle risorgimentali duramente preclusive ad ogni giusta considerazione di uno scrittore cosí centrale nella formazione del particolare neoclassicismo (ricco poi di esperienza preromantica) che prevale nella letteratura italiana nella feconda crisi di primo Ottocento.

Cosí come può avvertirsi qualche rischio, ma ben sollecitante per una nuova e storica configurazione del Monti e della sua epoca, in saggi che si muovono in consonanza con le istanze caratteristiche del saggio del Barbarisi: sia, nel capitolo monografico del Mineo, nel ’75[109], piuttosto eclettico anche come impianto metodologico, e che mira a delineare la presenza del Monti nel flusso degli avvenimenti contemporanei, di cui fu interprete nella sua qualità di intellettuale[110]«conformista in buona coscienza» e di letterato «utile al potere» e capace di far vivere in poesia anche aspirazioni e ideali della classe borghese e di assortire alla poesia prevalente dell’immaginazione anche quella del «cuore»[111], riuscendo cosí a mediare e propagare la nuova sensibilità aperta al romanticismo, sia, e piú, nelle dense pagine del Cardini, La «riforma» di Vincenzo Monti[112], che, entro una stimolante e nuova ricostruzione del neoclassicismo italiano dell’età napoleonica in chiave non solo letteraria, ma anche politica, illustra – forse con qualche rischio di levitazione dell’importanza del Monti specie nei confronti del Foscolo – il significato delle proposte fatte dal Monti per un rinnovamento della cultura nazionale in direzione ideologico-polemica con il «protettorato» francese specie nelle Lezioni pavesi («esaltazione appassionata della grande poesia civile, alimentata da una fondamentale vocazione morale e politica, soprattutto nella lezione dedicata a Dante»[113]) e poi negli scritti sulla «questione della lingua», in cui il ritorno ai classici proposto dal Monti è prospettato come nettamente diversificato (in accordo con la tesi piú avanti ricordata del Timpanaro) da quelle del Cesari e dei compilatori del «vocabolario della Crusca» e precisato come un ritorno non solo lessicale, ma anche ideologico ad una tradizione nazionale anticosmopolitica e antifrancese con chiare valenze politiche nel momento storico del protettorato francese.

Proprio all’aspetto meno considerato nella critica precedente (e con rapporti al tema emergente dell’intellettuale e non solo poeta) del linguista della Proposta, dopo il lucido intervento di Vitale[114] (che, nel contesto della precisa «questione della lingua», sottolinea l’apertura del Monti «alle moderne esigenze del sapere» e la sensibilità «al valore di tutta la tradizione italiana presa nel suo complesso e nella sua molteplice storia» fatta riconvergere nella proposta di una teoria dell’«italiano comune», ma insieme precisando come la posizione del Monti, sebbene piú avanzata di quella di un Cesari, possa assimilarsi a quella dei puristi perché «appoggiata su un piano ancora culturale e letterario e ugualmente ispirata al culto della forma eletta e leggiadra»), si svolse un vivace dibattito fra il Timpanaro (che, nel ’65, nel suo importante volume su classicismo e illuminismo[115], aveva sostenuto la fecondità della teoria montiana per la sua esigenza di un volgare illustre adeguato alla cultura non solo letteraria, ma scientifica e filosofica di una nazione e quindi il suo legame con le teorie linguistiche del Cattaneo e dell’Ascoli) e la Corti[116] (che, in polemica, negava tale continuità a causa delle contraddizioni montiane che emergono nel contrasto fra il proclama della lingua comune e la realtà della sua vera attenzione alla lingua letteraria), cui Timpanaro replicò rafforzando la sua tesi e la linea affermata di continuità chiarendo ulteriormente come essa consista non al livello di una anacronistica «ingenuità» popolaresca, ma a quello della cultura nazionale, non solo letteraria, ma anche scientifica[117]. E, piú recentemente, entro gli interessi dunque piú vivi suscitati ora dall’opera montiana, il problema del linguista e polemista della Proposta è stato ancora affrontato dallo studio piú espositivo dell’Anzini[118], da quello delLA Gesi[119], secondo il quale, cercando di superare il dibattito Timpanaro-Corti, si rileva come nel Monti si intrecciano una linea illuministica piú moderna e sensibile alla necessità di uno sviluppo linguistico corrispondente al processo storico, e una linea retorico-cinquecentesca piú ancorata alla lingua scritta e colta, anche se non municipale, ma largamente italiana, con la conclusione del prevalere di «arte» su «natura» con un certo permanere di vicinanza al Cesari e alla stessa Crusca, e solo piú filologicamente scaltrita. Mentre diversamente la Balbi, in un recentissimo studio[120], valuta il progresso montiano rispetto al Cesari e alla Crusca e alla loro prevalente «preoccupazione della forma», poiché il Monti, a suo avviso, «avvertiva in quella posizione (e con lui lo stesso Manzoni e il Leopardi) una intollerabile restrizione espressiva, un accademismo intransigente e un pericoloso tentativo di far regredire di secoli il linguaggio, privando l’età moderna di un adeguato mezzo espressivo».

Scarsi sono stati i segni di una piú forte ripresa della critica montiana sulla possibile sollecitazione del centocinquantenario della nascita, ricordato solo da un piccolo convegno ad Alfonsine[121] e da un brevissimo seppur interessante saggio del Maier che punta soprattutto sulla formula della «professionalità» letteraria[122] del Monti partendo dalla risolutività del suo impegno stilistico (di fronte a cui meno conterebbero le sue debolezze umane e politiche), sul suo «mestiere di scrivere» in cui si esprimerebbe totalmente il suo «mestiere di vivere», mentre il carattere professionale del Monti emerge anche dal saggio del Ciani[123] che studia filologicamente le ragioni delle prime raccolte poetiche montiane. E certo, ancora, al di là delle basi di ripresa di una piú centrale critica monografica e di una collocazione storico-estetica del Monti offerte da alcuni saggi monografici (come soprattutto quello del Barbarisi) e dagli spunti che da questi derivano, come da contributi particolari sull’intellettuale e uomo di cultura, sul linguista, sul traduttore, sul carattere professionale dell’artista, è ben augurabile intravvedere una posizione piú sintetica e organica, che potrà poi avvalersi dello studio capillare della vasta opera montiana rimasta ad edizioni ottocentesche tutte da rivedere e integrare che certo verrà nei prossimi anni condotto in relazione all’impresa ora impostata di un’edizione critica nazionale.

Spero che intanto anche la pubblicazione del presente libro (finora rimasto nella sua forma di dispense) possa contribuire ad una ripresa di discussione sul tema ineludibile della realtà poetica montiana, che non può essere solo risolta in aspetti pure importanti della personalità del Monti, che devono invece essere organizzati in relazione alla centralità della sua poetica e della sua poesia.


1 Per una bibliografia della critica montiana e per altre notizie e valutazioni del problema critico montiano, v. il profilo di storia della critica montiana di L. Fontana nel II vol. dei Classici italiani nella storia della critica, da me diretti, Firenze, La Nuova Italia, 1955 ss. Per il periodo 1950-1980, v. il saggio di D. Consoli, Orientamenti e problemi della critica montiana nell’ultimo trentennio, in «Cultura e scuola», 74, 1980. Una generale bibliografia delle opere montiane e della critica relativa fino al 1928 è quella di G. Bustico, Bibliografia di V. Monti, Firenze 1928. Altre indicazioni bibliografiche si trovano nel Repertorio bibliografico della letteratura italiana, di G. Prezzolini, 4 voll., Roma-New York 1932, 1942.

2 Stendhal, lettera del 24 settembre 1824 a Louise S.W. Belloc, in Correspondance, Paris, Pléiade, 1967, II, p. 43. Per Stendhal, pur in mezzo a contrastanti giudizi, il Monti è comunque il primo poeta italiano anche rispetto a Foscolo («Foscolo, le premier poète d’Italie, après Monti», 31 dicembre 1816), come dice in Voyages en Italie, Paris, Pléiade, 1955, p. 20.

3 B. Constant, Journaux intimes, in Oeuvres, Paris, Pléiade, 1957, 19 ottobre, 21 ottobre, 16 novembre 1805, p. 520 e p. 522.

4 De Staël, lettera del 23 febbraio 1805 al Monti in Lettere del Foscolo, del Giordani e della Signora di Staël a V. Monti, Livorno 1876, p. 267.

5 Questo passo fu stampato solo in tre esemplari della prima edizione (1804) e venne poi soppresso per preghiera di comuni amici.

6 C. Sismondi, De la littérature du midi de l’Europe, Paris 1813, III, pp. 86-87 e p. 92.

7 U. Foscolo, Epistolario, Firenze, ed. naz. II, 1952 (e ancora: «Avrà grande fama e non santa»).

8 U. Foscolo, Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816, in Opere, Firenze, ed. naz. VIII, 1937, p. 111 (tutto il paragrafo dedicato al Monti nella Hypercolipseos clavis condensa il disprezzo foscoliano per il poeta “Voltagabbana”).

9 U. Foscolo, Saggi di letteratura italiana, XI, parte II delle Opere, Firenze, ed. naz., 1958, pp. 526-538.

10 Per i rapporti del Leopardi con il Monti nello svolgimento della propria poetica e poesia, v. il mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento in La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973.

11 Zibaldone, in Opere, a cura di W. Binni con la collaborazione di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969, II, pp. 9-10.

12 Ibid., pp. 25-26.

13 Ibid., p. 216.

14 Ibid., p. 221.

15 Ibid., p. 222.

16 Ibid., pp. 867-869.

17 Ibid., p. 1208.

18 E. Visconti, Idee elementari sulla poesia romantica, in Discussioni e polemiche sul romanticismo, Bari 1975, I, p. 458.

19 V. Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, Firenze 1930, V, p. 39.

20 G. Berchet, Opere, a cura di E. Bellorini, Bari 1912, II, p. 100.

21 P. Giordani, Ritratto di V. Monti, «Antologia», febbraio 1830 (poi in Scritti editi e postumi, a c. di A. Gussalli, IV, Milano 1857, pp. 231-233).

22 V. in proposito il mio profilo di storia della critica foscoliana, nel secondo volume dei Classici italiani nella storia della critica, Firenze, La Nuova Italia, 1955, e il volume Foscolo e la critica, Firenze 1957.

23 Ora in G. Mazzini, Scritti editi e inediti, Imola 1906-1943, I, pp. 107-109.

24 Anche il Pellico in una lettera al fratello sottolineava il carattere positivo della Proposta, ché la rottura della tirannide anche solo in campo linguistico importava per lui un risveglio del senso critico che porterebbe poi a combattere ogni altra forma di costrizione e di tirannia.

25 G. Mazzini, Scritti editi e inediti cit., I, pp. 177-222 (in particolare p. 216).

26 G. Mazzini, Scritti editi e inediti cit., VIII, pp. 347-391 (in particolare pp. 350-354).

27 N. Tommaseo, Dizionario estetico, Firenze 1840 (voce «Monti»).

28 Sulla vita e sulle opere di Vincenzo Monti, Firenze 1847, I.

29 L. Carrer, Scritti critici, a cura di G. Gambarin, Bari 1969, p. 296.

30 Il Guerrazzi, ad esempio, dirà che la poesia è «un’eloquenza piú colorita».

31 In un breve saggio, ora in Scritti scelti, a cura di A. Guzzo, Torino 1954, pp. 370-371.

32 C. Cantú, Storia della letteratura italiana, Firenze 1855, pp. 577-606.

33 P. Emiliani-Giudici, Storia della letteratura italiana, Firenze,18572, II, pp. 414-426.

34 L. Settembrini, Lezioni di storia della letteratura italiana, Firenze 1964, pp. 998-1006.

35 Cfr. Teoria e storia della letteratura, Bari 1926, I, pp. 163-166.

36 F. De Sanctis, Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari 1952, I, pp. 181-186.

37 Ibid., pp. 76-112.

38 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce, Bari 1949, II, pp. 393-394.

39 Firenze 1858, pp. III-XIV.

40 Firenze 1869, pp. V-XVI.

41 Carducci era allora ardente repubblicano non ancora convertito a posizioni monarchiche conservatrici (cfr. il mio saggio Carducci politico in Carducci e altri saggi, Torino 1960-19804).

42 In Opere, Bologna, ed. naz. XVIII, 1944, pp. 125-146 (in cui son rifuse in parte le prefazioni alle edizioni montiane).

43 Firenze 1862, I, pp. IV-VIII.

44 Opere cit., VII, pp. 400-402.

45 Opere cit., XV, pp. 78-79.

46 Firenze 1894.

47 C. Steiner, Vincenzo Monti, Roma 1915.

48 E. Donadoni, Sommario della storia della letteratura italiana, Milano 1923, pp. 245-251.

49 Nella «Critica» del 1921 e poi in Poesia e non poesia, Bari 1923.

50 Schema ancora combattuto dal Croce a proposito del Monti anche in La poesia, Bari 1936, p. 139.

51 B. Croce, Poesia e non poesia cit., p. 22-23.

52 Ibid., p. 23.

53 B. Croce, La poesia cit., p. 103.

54 Poi ripubblicato nel volume Il romanticismo e la poesia italiana dal Parini al Carducci, Bari, 1935.

55 Piú discutibile è invece la diretta incidenza su questo favore goduto dal Monti delle direttive del “regime” nella glorificazione del poeta “romagnolo”, esaltatore di Roma e di Napoleone.

56 E. Bevilacqua, Vincenzo Monti, Firenze 1928.

57 G. Reichenbach, Vincenzo Monti, Roma 1929.

58 A. Pompeati, Vincenzo Monti, Bologna 1928.

59 Introduzione ad una antologia montiana (Firenze 1927) rifusa poi nel capitolo sul Monti nella Storia della letteratura italiana, III, Milano 1940.

60 F. Flora, Storia della letteratura italiana cit., III, pp. 11-12.

61 Ibid., pp. 23-26.

62 Poi in Ritratti e disegni storici II, Bari 1946.

63 Ibid., p. 190.

64 Ibid., p. 195.

65 Ibid., p. 199.

66 Ibid., p. 209. Piú tardi, in un saggio del 1951 su «Belfagor», il Russo riprendeva la sua interpretazione montiana e tendeva ancora a giustificare “storicamente” la natura del Monti (Perché Vincenzo Monti fu quel poeta che fu) legandola alla educazione di tipo gesuitico e cattolico-postridentino (secondo una direzione aperta dal Foscolo). Si veda in proposito, la mia osservazione in Poetica critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963, 1980, p. 32, che riteneva troppo deterministica l’interpretazione montiana di quel saggio. Svolse poi tale tesi uno scolaro del Russo, G.C. Ferretti, in un saggio del 1955 in «Belfagor», Vincenzo Monti di fronte alla realtà quotidiana e storica, che tenta un piú esplicito affiatamento storico del Monti con la vita e le vicende morali e politiche del suo tempo, e una giustificazione della sua preziosa eleganza stilistica in base al suo stesso desiderio di quieta e tranquilla operosità letteraria la quale lo distolse da ogni effettiva partecipazione ai problemi della realtà sociale e politica contemporanea e lo portò ad un «conformismo indifferente e spontaneo» rispetto alle esigenze ideologiche dei diversi regimi succedutisi nel corso della sua vita, rifugiandosi invece nelle sue «incantate visioni».

67 A. Momigliano, Storia della letteratura italiana, Messina 1936, p. 397.

68 Ibid., p. 398.

69 Ibid., p. 398.

70 Ibid., pp. 398-399.

71 In «Leonardo», con lo pseudonimo di Giorgio Flores, poi in Cinque saggi, Firenze 1945.

72 Ibid., p. 33.

73 Ibid., p. 38.

74 In fondo molto del favore goduto dal Monti fra i letterati italiani intorno al 1930 era anche legato alla vicinanza apparente di alcune sue opere alle Grazie foscoliane, valutate come poesia visiva e musicale, evasione in un regno alto di puri miti. Ma poi, dopo un approfondimento maggiore della complessità, essenzialità e umanità delle Grazie, tanto piú si rilevava la diversa intimità tra quel Foscolo e il Monti, e nella stessa direzione della musicalità e del visivo risaltava il carattere piú esteriore dei mezzi stilistici del Monti.

75 Milano 1940; poi ripresa in Notizie di poeti, Firenze 1942, e successivamente ampliata in Carriera poetica di Vincenzo Monti, Milano 1960, da cui ora cito.

76 Ibid., pp. 6-7.

77 Ibid., p. 8.

78 Ibid., p. 8.

79 Ibid., p. 80.

80 G. De Robertis, Giudizi sul Monti (in discussione con l’Angelini e col Flora), 1940, poi in Studi, Firenze 1944.

81 Ibid., p. 110.

82 Ibid., p. 110.

83 Ibid., p. 113.

84 L. Fontana, Monti prosatore e retore, Milano-Roma, 1943, e Vincenzo Monti verseggiatore e poeta, Milano-Roma, 1948.

85 F. Allevi, Vincenzo Monti, Firenze 1954.

86 III vol., Firenze 1947.

87 V. Monti, Opere, a cura di M. Valgimigli e C. Muscetta, Milano-Napoli 1953.

88 A Roma, ma soprattutto al neoclassicismo romano e alla cultura figurativa neoclassica, riportava il Monti e il suo «fondamentale eclettismo» F. Ulivi in un fine saggio, Gusto e poesia di Vincenzo Monti, in «Letteratura», 1954, poi in Settecento neoclassico, Pisa 1957.

89 A proposito del Monti traduttore, in «Società», 1954, poi in Ritratti e letture, Milano 1957. Piú tardi il Muscetta riprese e arricchí la sua introduzione in Orientamenti culturali, letteratura italiana, i maggiori, Milano, 1956, II.

90 M. Valgimigli, La traduzione dell’Iliade, in V. Monti, Opere cit.

91 M. Fubini, Vincenzo Monti, in «Nuova antologia», 1954, poi in Romanticismo italiano, Bari 1960.

92 Ibid., p. 69.

93 D. Chiomenti Vassalli, Vincenzo Monti nel dramma dei suoi tempi, Milano 1968.

94 L. Vischi, La genesi dell’Iliade montiana, in «Convivium», 1956.

95 G.F. Chiodaroli, Metodo e letteratura dell’Iliade di Vincenzo Monti, in «Giornale Storico della letteratura italiana», 1956. Del Chiodaroli si deve ricordare anche l’introduzione e il commento, pregevoli, ad un’edizione dell’Iliade montiana, Firenze 1958 (con una nuova edizione postuma a cura di G. Barbarisi, Torino 1963).

96 Introduzione all’edizione dell’Iliade cit., p. XII.

97 Iliade di Vincenzo Monti, a cura di V. Turri, presentata da I. De Luca, Firenze, 1961.

98 Osservazioni sull’Iliade del Monti di E.Q. Visconti e di A. Mustoxidi, a cura di I. De Luca, Firenze 1961.

99 A. Balbi, Vincenzo Monti e la sua teorica del tradurre, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1956.

100 A. Balbi, La traduzione montiana dell’Iliade, Roma 1968.

101 c. Colicchia, Il «Saggio di poesie» del 1779 e la prima poetica montiana, Firenze 1961.

102 Ibid., pp. 59-60.

103 Si ricordi a proposito della presenza montiana a Roma e nelle stato pontificio, l’aiuto che può venire dal volume (che usufruisce proprio di lettere montiane) di L. Dal Pane, Lo stato pontificio e il movimento riformatore, Milano 1959 (che riproduce il poco diffuso saggio Spunti per la storia sociale settecentesca nell’epistolario di un letterato romagnolo, in «Studi romagnoli», 1952).

104 In Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano 1969, VII.

105 È l’introduzione a Vincenzo Monti, Poesie a cura di G. Bezzola, Torino 1969.

106 Ibid., p. 11.

107 Cfr. G. Carosella Corvisiero, Mitologia e fantasia in Vincenzo Monti, Napoli 1970.

108 Ibid., pp. 5-6, 12.

109 N. Mineo, La carriera di Vincenzo Monti, in Letteratura Italiana, Bari, Laterza, 1977, VII.

110 Ibid., p. 165.

111 Ibid., p. 172.

112 R. Cardini, Ideologie letterarie dell’età napoleonica, Roma 1973, 1975, I (1800-1803).

113 Ibid., p. XCVI.

114 M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1960, nuova ed. ampliata e arricchita, Palermo 1980, pp. 506-510.

115 S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1965.

116 M. Corti, Il problema della lingua nel romanticismo italiano, in Metodi e fantasmi, Milano 1969.

117 Nella prefazione alla 2a ed. dell’opera citata, Pisa 1969, pp. XXIV-XXX.

118 M. Anzini, Teoria e prassi linguistica in Vincenzo Monti, in Studi in onore di Alfredo Schiaffini, Verona 1976.

119 S. Gesi, Teoria e prassi linguistica in Vincenzo Monti, in «Studi e saggi linguistici», Pisa 1976.

120 A. Balbi Facchini, Per una rilettura della «Proposta» montiana, in Studi in onore di Raffaele Spongano, Bologna 1980.

121 Si tratta di un convegno montiano tenuto ad Alfonsine nell’ottobre 1978 e cui parteciparono, fra gli altri, G. Barbarisi, G. Bezzola, I. De Luca, N. Tanda, ma i cui Atti devono essere ancora pubblicati. (Il saggio del Tanda, Il Teatro di idee del Monti, è stato pubblicato a parte in un volumetto omonimo, Sassari 1979, che raccoglie anche un saggio del ’74, Classicismo e illuminismo nell’opera del Monti).

122 B. Maier, Vincenzo Monti o della professionalità letteraria, in «Ausonia», 1979.

123 I. Ciani, Le prime raccolte poetiche di Vincenzo Monti, in «Studi di filologia italiana», XXXVII, 1979. Mentre correggo le bozze del mio volume, vedo sugli «Studi di filologia italiana», XXXVIII (1980), un nuovo saggio filologico del Ciani, Per la «Feroniade» di Vincenzo Monti, e uno di A. Bruni, Preliminari all’edizione dell’«Iliade» montiana.